Bildungsroman di un punk
a Maria Vittoria
Non sapevo quale fosse la gentilezza
di cui parlavi, lingua per me araba,
né conoscevo il rispetto, la tolleranza,
la ginnastica delle buone maniere.
Tu, ostinata, curavi
la mia isteria con assensi ironici e mutismi
di rappresaglia. Alle isole Cies dimostravo,
seduto su uno scoglio, che l’amore
– per circolo logico, somma
di sillogismi molati come lenti
spinoziane – impossibile, un assurdo.
Ti difendevi bene, per irrisioni e incantamenti,
citando pagine d’Ovidio, battezzando
un cespuglio – “questo è il pitosforo
fa fiori bianchi e profumati, e questa
è l’erica che punge e non profuma” –
il dito puntato sul mio buco nella scarpa
“e questo – aggiungevi – è lo stile
del profugo, sbrendolante
e cocciuto”, mi sillabavi anche
i nomi degli dèi greci come a un bimbo
s’insinua nel pianto una nenia,
un bavaglio di sonno, e stordito
dai morsi lirici, ti mimavo
– celebrando il fango del mondo –
Céline l’africano, moribondo
e diarroico, portato su lettighe, le risa
calmavi, disegnando su taccuini
fiori di taràssaco. I soffioni spargevo
controluce, nell’aria incendiata,
e coll’unghia crudele tranciavo
i ponti di ragnatela sospesi
tra ginestre e muri a secco.
“La calma è una menzogna:
i parassiti, le raffiche di sale, gli acidi
dell’uomo corrodono la costa in ogni fibra,
sopravvive convulsa la bottiglia
di plastica nella polvere e la pietra
forte di una morte cumulata
che il tenace logorìo dei vivi
non intacca.” Rispolveravo
una fredda rabbia: la foto
di un minatore andino sedicenne
con la ghiaia tra le gengive,
custodivo una memoria non mia,
sacra, orribile, l’icona dei corpi
striscianti nel buio torrido
dove si pesca il rame.
Non sapevo l’uso e il contesto di parole
che per te erano cose ostensibili:
“cortesia” e “rispetto”, per me favole
di fiato. Non ero mai sereno,
disarmato, nell’assedio
di presagi e fantasie correnti:
i boia al lavoro, meticolosi nell’ustionare,
nel bastonare sulle piante dei piedi,
nello strizzare i capezzoli fino alla pazzia.
Ho conosciuto la gioia violenta
dei crestati urlanti nel microfono
che a torso nudo tuffavano dal palco
sulla mandria assiepata e scalpitante.
Ho amato la lebbra dei muri scalcinati,
le cicatrici sulla fronte, gli sterri
dove nei bidoni cotti dalla ruggine
un’acqua chimica culla
una testa di pazzo, stravolta
dai baleni dell’anfetamina.
Ho ascoltato, in rapimento, le aspre
sinfonie del rumore, battendo
una catena sul selciato
fino all’ipnosi, nella fabbrica
occupata di via Bernina.
Rammento tutte le gradazioni dell’angoscia
assaporata come elemento fatale,
ineliminabile del mondo. Ripercorro
le fratture logiche della paura, le sue vette
violente, il suo bagliore che sorge
da ogni angolo, come un precipitarsi
di lame. E lo sforzo per manovrare
discorsi che hanno perso da ore tema
e direzione. Non ho creduto nella gentilezza,
nel sapore del vino, nel profumo
delle erbe. Ma nelle geometrie frantumate
di solitarie preghiere e meditazioni,
negli esorcismi che chiamano
i pensieri dei condannati, dei sepolti
vivi. È stata una buona strada sbagliata.
La tregua non è meno vera della guerra.
Questo ho capito. Mi sono educato di nuovo
a pesare tutto e con bilance sempre
più precise. E avverto anche un ago
di rosmarino, ora, sul palmo della mano.
Ed è un dettaglio che diventa centrale nel quadro.
E sarò gentile anche con il rosmarino
lo innaffio e lo osservo sotto
luci diverse, gli ho dato concime
liquido, ho legato il vaso crepato
con un filo di stendibiancheria.
E la tortura esiste. E i fiori di rosmarino esistono.